Lorenzo Albrici

Il lavoro di uno chef è molto simile a quello di un architetto: quando si progetta una casa bisogna riuscire a far combaciare la dimensione estetica con quella funzionale, la bellezza delle linee con la fruibilità degli ambienti, i colori con le forme, la tipologia dei materiali con la natura degli spazi. Lo stesso procedimento è alla base della creazione di un piatto ben riuscito in cui sapori, profumi, materie, consistenze e colori devono equilibrarsi alla perfezione.

Proprio come in architettura, anche nell’alta cucina il tutto parte da uno schizzo: un disegno tracciato a matita su un foglio di carta, in cui si esprime la vena artistica e creativa dello chef (lampi di ispirazione nati quasi per caso, osservando i prodotti in vendita al banco pescheria, incantandosi di fronte ai colori delle bancarelle di un mercato o lasciandosi inebriare dall’odore degli ortaggi appena raccolti) e che, insieme, testimonia una necessità di progettazione puntigliosa, attenta, metodica, quasi ingegneristica, in virtù della quale l’esecuzione della ricetta non lascerà il minimo spazio all’emotività. «Potremmo chiamarla architettura del cibo, quella che pratichiamo periodicamente io e i miei collaboratori quando, durante uno dei giorni di chiusura del ristorante, ci riuniamo attorno a un tavolo per studiare i nuovi menu. È una disciplina strana, in cui devono riuscire a convivere l’inevitabile cambiamento dell’ultimo minuto, l’improvvisazione tipica di qualsiasi cucina, e la visione precisa e rigorosa di ciascuno dei passaggi che condurranno al risultato a cui miriamo».

Bellinzona. Il Ristorante Locanda Orico (1 stella Michelin), di cui il nostro ospite è titolare e chef, si trova poche centinaia di metri dalla sua casa. 
© Loreta Daulte / studio daulte

Una componente effimera

Ed è proprio seguendo questo approccio che il Trancio di merluzzo Skrei in crosta aromatica di fiorellini di campo, i Cubi di testina e guancetta di vitello affogati in un “court bouillon” e le Caramelle farcite alla polpa di zucca Butternut e luganighetta nostrana hanno visto la luce e deliziato il palato dei clienti del Ristorante Locanda Orico di Lorenzo Albrici, lo chef stellato che, in un lunedì pomeriggio d’inverno, ci accoglie a casa sua. Appena varcata la soglia avviata la conversazione con il padrone di casa, si percepisce nitidamente la natura insolita di questi spazi – degli ambienti che, forse, fra i tanti presentati nelle pagine di TuttoCasa nel corso degli anni, sembrano non riflettere immediatamente la presenza del loro inquilino, non interagire con lui, non influenzare la sua quotidianità. «Fare lo chef è un mestiere bellissimo, ma comporta molti sacrifici: orari di lavoro lunghi e irregolari, vacanze praticamente inesistenti, necessità di una presenza quasi costante in cucina – il lunedì, per esempio, sarebbe il mio giorno libero, eppure anche oggi, prima di questa intervista, ho dovuto passare al ristorante per regolare alcune questioni con i nostri fornitori», racconta Lorenzo. «Questo fa sì che tutto ciò che sta al di fuori dalla cucina, compresa la dimensione domestica, diventi piuttosto effimero per me». Un rapporto particolare, quello che lega lo chef alla propria abitazione, che ha radici molto profonde, risalenti alla sua prima giovinezza.

Una fase dell’intervista svoltasi nel salotto di casa, proprio sopra l’opera d’arte creata dallo stesso chef utilizzando tappi di “bollicine” collezionati negli anni di attività.

La prima partenza

«Il fascino per la cucina ha fatto capolino quando, da bambino, trascorrevo le estati nell’albergo dei miei nonni, nel Canton Grigioni. Passavo i pomeriggi a correre per i lunghissimi corridoi, mi intrufolavo nelle stanze e sbirciavo il viavai ininterrotto (e per me particolarmente fiabesco) di chef, cuochi e camerieri che si affaccendavano nelle cucine». Accanto all’albergo – una struttura abitativa provvisoria, per definizione – lo scenario che fa da sfondo all’infanzia di Lorenzo Albrici è la famiglia – una famiglia per certi aspetti molto simile a quella che Lorenzo si costruirà da adulto, «con un papà che, come me, passava tanto tempo lontano da casa per lavoro». A questi presupposti – a questa abitudine a considerare l’ambiente domestico come una parte, e non come il centro, della propria vita – si può forse ricondurre la decisione di Lorenzo di rinunciare a un’idea tradizionale di casa per inseguire il suo sogno più grande: quello di diventare uno chef. «A quindici anni ho fatto “il primo fagotto” (all’epoca non sapevo ancora che ne sarebbero seguiti infiniti altri!) e sono partito da casa» racconta lo chef sorridendo. «Da Bellinzona mi sono spostato a Locarno per seguire l’apprendistato. Nonostante fossi a pochi chilometri da casa, restavo lì per tutta la settimana, e alloggiavo nella piccola stanza assegnatami dal datore di lavoro. Ero molto giovane: all’inizio non è stato facile, ma poi mi sono adattato»

Da Bellinzona a Zurigo,
passando per Parigi

Pochi anni dopo, Albrici spicca il volo: lasciatosi alle spalle il Ticino, parte alla volta dei più importanti alberghi di Saint Moritz, per poi spostarsi in Italia e in Francia, dove frequenta la scuola gastronomica Ritz-Escoffier di Parigi. Tornato in Svizzera, collabora con chef di fama internazionale come Frédy Girardet (3 stelle Michelin, 19.5 punti Gault&Millau), per poi stabilirsi all’Hotel Savoy di Zurigo come Chef de cuisine. «Per più di dieci anni ho abitato in alloggi del personale o piccoli monolocali. Il tempo libero era poco, e chi faceva il mio mestiere non sentiva la necessità di costruirsi una vera e propria casa al di fuori del ristorante. La casa vera rimaneva, infatti, quella dei propri genitori in Ticino, dove si faceva ritorno appena possibile, da bravi “wochenaufenthalter”, come ci soprannominavano i colleghi svizzero tedeschi» racconta Lorenzo sorridendo. «A Zurigo, alla fine degli anni Novanta, avevo tutto quello che potessi desiderare, eppure avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa». Come un fulmine a ciel sereno, la proposta di acquistare un ristorante nel centro di Bellinzona, la sua città natale, riporta Lorenzo sui propri passi e lo riconduce alle sue origini biografiche.

La cucina di casa dello chef stellato.

Ritorno alle origini

«Nel 1998 ho lasciato tutto e sono tornato a Bellinzona per aprire il mio ristorante e coltivare il mio stile di cucina. Allora non miravo ad ottenere i riconoscimenti che, due anni dopo, sono arrivati in maniera del tutto inaspettata». Mentre la carriera dello chef subiva un’impennata con l’assegnazione di una stella Michelin al suo ristorante, Lorenzo Albrici trovava, finalmente, la terraferma anche al di fuori della propria cucina. Per la prima volta, infatti, agli alloggi precari e anonimi che si erano susseguiti negli anni della sua formazione, si sostituiva una casa, una dimensione domestica accogliente, e una famiglia. «Da quando sono arrivati i miei figli ho cercato di rallentare i ritmi: se i giorni di apertura sono in cucina dalle 08:30 di mattino fino a notte inoltrata, il tempo restante – una volta sfruttato per degustazioni di vini, ricerche di nuovi prodotti e altre attività legate al mondo della cucina – oggi è dedicato ai miei famigliari». Ed è così che, gradualmente, è andato creandosi quel continuum spaziale che, nell’arco dei 500 metri che separano la Locanda Orico dall’appartamento della Famiglia Albrici, può oggi definirsi come lo spazio abitativo del nostro personaggio.

Le guide Michelin “dominano” la sala dalla mensola del salotto.

Fusione completa

Il movimento costante fra i suoi due mondi, fra le sue due case – appartamento e ristorante, cucina e famiglia – fa sì che, oltre a coesistere all’interno della vita dello chef, queste due realtà si compenetrino al punto da diventare una cosa sola. «Capita spesso che mia moglie e i miei figli vengano alla Locanda e fungano da prima giuria per le mie nuove creazioni. Nelle rare sere in cui decidiamo di cenare a casa (ebbene sì, chiamatela deformazione professionale, ma… lavoro in un ristorante per il 99% del mio tempo e, nel restante 1%, amo portare la mia famiglia fuori a cena!), invece  loro si divertono a scrivermi le ordinazioni dei piatti che desiderano e, se all’ultimo momento mi accorgo che manca qualcosa, faccio un salto al ristorante e mi procuro tutti gli ingredienti necessari», racconta Albrici. 

Una fusione completa, quella fra vita lavorativa e vita privata, che, grazie alla forma mentis disciplinata e rigorosa di uno chef abituato a lavorare sotto forte pressione, sa anche tradursi in una drastica scissione. «Il fatto che il ristorante si trovi a pochi passi non influisce minimamente sul mio stato d’animo quando mi trovo a casa. Quando sono qui, per me la Locanda non esiste, mi impongo di dimenticarmela e riesco a staccare completamente la spina».

Un profondo legame unisce la progettazione
di un piatto a quella dell’ambiente che lo circonda.
© Loreta Daulte / studio daulte..

È indispensabile creare l’atmosfera ideale, scegliere la giusta gradazione di luce e il sottofondo musicale perfetto per invitare i clienti a rompere i ritmi frenetici della quotidianità, fermarsi a gustare un buon piatto

L’importanza del contesto

Presupposto essenziale per riuscire a bilanciare sfera privata e impegni lavorativi, è disporre del contesto adatto ad accogliere ciascuna attività. «Non sono un esperto di architettura o arredamento – in casa nostra questo è il regno indiscusso di mia moglie! – ma constato l’importanza degli spazi nel fungere da contenitore per le esperienze che vi vengono vissute, a casa mia come al mio ristorante», racconta Albrici. Ed è in quest’ottica che occorre leggere le scelte d’arredo di una casa semplice, sobria e funzionale, ornata dalla giusta dose di elementi che riconducano all’identità dei proprietari (fra i quali spiccano le guide Michelin in bella mostra in salotto; un’opera d’arte creata dallo chef in persona, composta da una collezione di quasi 500 capsule di “bollicine” degustate nel corso degli anni; o il tesoro più prezioso: la penna con cui Lorenzo Albrici ha firmato i riconoscimenti più prestigiosi ottenuti in campo culinario). Una casa la cui collocazione strategica, i cui colori tenui e le cui linee pulite sono volte a garantire le condizioni ideali per ritrovare la calma, rilassarsi, e godere del calore degli affetti. «Anche se vivo poco la casa e non mi curo del suo aspetto, quello che trovo al suo interno, e quello di cui riesco a godere grazie a queste sue caratteristiche, è per me assolutamente fondamentale. È in quest’ottica che va letta l’importanza della dimensione domestica nella mia vita».

In maniera speculare, «se è vero che “la pietanza che assaggi è più importante del fiore che hai sul tavolo”, e che il cibo è l’indiscusso protagonista di qualsiasi ristorante che si rispetti, l’ambiente nel quale il cliente gusta la propria cena non è certo trascurabile». In un’epoca in cui la sete di esperienze – da vivere e soprattutto da condividere virtualmente con i propri seguaci – sembra essere insaziabile, appare chiaro come per uno chef-proprietario (responsabile non solo della cucina, ma dell’intero allestimento del proprio locale), la dimensione architettonica assuma grande importanza. «È indispensabile creare l’atmosfera ideale, scegliere la giusta gradazione di luce e il sottofondo musicale perfetto per invitare i clienti a rompere i ritmi frenetici della quotidianità per fermarsi a gustare un buon piatto»

Come la notte e il giorno

Un invito a rallentare, un inno allo slow food, a concedersi il tempo per ritrovare la genuinità del cibo rivolto ai clienti della Locanda Orico, che si pone in aperto contrasto con quanto avviene a pochi metri di distanza da loro, nelle cucine. «La sala e la cucina sono come la notte e il giorno: da un lato la calma, il tintinnio dei brindisi e il chiacchierio sommesso; dall’altro i ritmi serrati, le urla e i movimenti frenetici», racconta Albrici. «E anche qui, nella frenesia della cucina, il “contesto spaziale” assume un ruolo fondamentale: la mia cucina è disegnata esattamente come dico io, dalla posizione degli elettrodomestici alla collocazione dei vani per le stoviglie, allo spazio per passare da una parte all’altra. Ogni cosa è calibrata al millimetro per soddisfare le nostre esigenze. Se nell’allestimento della sala mi faccio guidare ad occhi chiusi (o quasi) dal mio architetto, in cucina non accetto compromessi!».

La camera da letto padronale dove trovano spazio opere d’arte e comodini di design.

Sapore nostrano 

Un’atmosfera unica e chiaramente identificabile, sia per i cuochi che vi lavorano, sia per i clienti che vi convergono da tutte le regioni della Svizzera, che contribuisce a definire l’esperienza vissuta da chi frequenta la Locanda Orico. «Da quando è arrivata la stella Michelin la provenienza della nostra clientela è cambiata radicalmente: da un pubblico locale e regionale, ci siamo trovati confrontati con una clientela proveniente sempre più spesso da lontano. Il ristorante è diventato un crocevia di lingue, culture e background molto diversi fra loro». In un simile ambiente, il punto di contatto, la terraferma che raccoglie una clientela eterogenea diventa quindi, oltre al particolare stile culinario dello chef, la dimensione fisica del ristorante, la sua collocazione geografica: Bellinzona. «Il legame con il luogo nel quale ci troviamo è qualcosa di assolutamente imprescindibile, che non tenterò mai di cancellare, sia nella scelta delle materie prime (spesso locali e a km 0), sia nelle scelte d’arredo». Seppur stemperato da una tendenza a un’eleganza sobria, classica e raffinata, il sapore ticinese degli ambienti, siglato dal legno dei loggiati e dal cotto dei pavimenti, è palpabile, infatti, in ciascuno degli spazi. 

dettaglio dell’illuminazione di casa riflesso in uno specchio di design.

Un pezzo di Ticino ad alta quota

Se, dunque, nel caso della Locanda l’ubicazione e le caratteristiche degli spazi dipingono un contesto ben identificabile per i commensali, molto diversi sono, invece, i presupposti che hanno condotto lo chef a portare le sue creazioni… ad alta quota. «La compagnia aerea Swiss ha proposto ai suoi viaggiatori un menu concepito da me e dal mio team: un’impresa complessa, che ci ha richiesto mesi di preparazione e di sperimentazione». A 3’000 metri d’altezza, in quel “non luogo” che è la cabina di un aereo, dove qualsiasi connotazione spazio temporale sembra annullata, Lorenzo Albrici ha saputo trovare la chiave per far ritrovare ai suoi ospiti la terraferma: «prodotti ticinesi, dall’antipasto a base di formaggio di Alpeggio fino al dessert, con il cioccolato di Giubiasco; una serie di ricette volte a far conoscere la nostra regione al resto del mondo», dando ai passeggeri l’illusione di vedere questi luoghi, anche solo per qualche istante, anche solo attraverso le loro papille gustative.

«Un motore di convivialità»

Un legame, quello fra Lorenzo Albrici e il Ticino, che si misura nella sua assoluta fedeltà alla sua terra: «In questi anni non sono mancate le offerte di lavoro che mi avrebbero portato a spostarmi altrove per proseguire la mia carriera, ma le ho sempre rifiutate. Lavorare in Ticino non è facile, ma non credo che potrei mai lasciarlo, dopo averlo ritrovato», racconta lo chef. Con l’amore di un padre verso quello che potrebbe essere considerato il suo terzo figlio, Albrici augura lunga vita alla sua creazione: «Il mio grande desiderio sarebbe trovare qualcuno che, fra una decina d’anni, sia disposto a prendere le redini e infondere di nuova linfa vitale il mio ristorante, quando io non ci sarò più». 

«Sul piano personale, invece, non abbiamo progetti precisi: casa nostra ci piace e per il momento stiamo bene qui. Certo, se dovessi dare libero sfogo all’immaginazione e descrivere la casa della mia pensione, allora mi immaginerei una grande cucina aperta sul soggiorno, con un bancone centrale sul modello dei table chef che vanno così di moda in questo periodo. Uno spazio in cui recuperare quello che, in fondo, è il fine ultimo del cibo – che sia un piatto stellato o del semplice pane e salame: quello di alimentare la conversazione, di favorire la condivisione di un momento, di diventare un motore di convivialità».

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